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XV CONVEGNO NAZIONALE IdO

LE DISLESSIE
Il ruolo della scuola nella complessità degli apprendimenti

I piccoli di oggi sono sottoposti a pressioni sociali estremamente pressanti che determinano in loro reazioni diverse, che possono sfociare nella fobia scolare, nella depressione, nel mancato sviluppo delle autonomie di base e manifestarsi anche con i disturbi specifici dell’apprendimento, come la dislessia. Già a gennaio del 2013 l’Istat lanciò l’allarme, individuando nel 19,8% degli alunni delle scuole primarie con disabilità (ritardo mentale, disturbi del linguaggio, dell’apprendimento e dell’attenzione) la mancanza di autonomia nel mangiare, nello spostarsi e nell’andare in bagno. Problematiche innescate dall’ansia e dalla bassa autostima, che incidono sulla capacità dei bambini di utilizzare correttamente l’attenzione e più esattamente la capacità di concentrazione e la memoria, causando una difficoltà nello gestirsi autonomamente e di conseguenza negli apprendimenti.
Per approfondire l’argomento l’Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) ha promosso il XV convegno nazionale  su ‘Le Dislessie. Il ruolo della scuola nella complessità degli apprendimenti’, il 10 novembre 2012 e il 19 gennaio 2013 a Roma, presso l’Aula Magna dell’Istituto comprensivo Regina Elena.
LA RICERCA- L’ansia di separazione dalle figure genitoriali è l’origine della difficoltà psicologica quale causa nell’80% dei bambini diagnosticati come dislessici. A rilevarlo è una ricerca su ‘La dimensione affettiva del disturbo specifico dell’apprendimento’ realizzata dall’IdO, dall’Istituto Wartegg di Roma e dal dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università degli Studi di Padova.
L’indagine ha capovolto i termini della ricerca sui Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), sostenendo la centralità della dimensione affettiva e psicologica, piuttosto che quelle cognitiva e neuropsicologica, all’origine dei Dsa.
Il lavoro è stato realizzato su 61 bambini con Dsa in cura presso l’IdO e sulle rispettive famiglie. I risultati della ricerca sono stati poi confrontati con un campione di controllo costituito da altrettanti 61 bambini, ma normodotati, e dai relativi genitori. È risultato che quasi la metà dei bambini dislessici (il 40%) ha dimostrato difficoltà nell’approccio alla realtà, ovvero poche strategie per potersi adattare alle richieste sociali in termini affettivi. Il 37% ha registrato sintomi d’ansia rilevanti, mentre il 25% segni di ansia di separazione da figure e luoghi di riferimento. Invece nel campione di controllo le percentuali si sono attestate al di sotto del 10% per tutte e tre le variabili.
ORIGINE PSICOLOGICA E NON GENETICA- Nelle attività che l’IdO ha condotto nelle scuole è emerso che il 68% dei bambini con Dsa ha difficoltà in due condotte particolari: sonno agitato e il protrarsi di fenomeni tipo enuresi e stipsi. Questi dati consentono non solo di spiegare l’incredibile aumento dei Dsa, ma anche di avvalorare l’ipotesi psicologica e non genetica quale origine di questi disturbi, perché ciò che è aumentato è proprio il malessere delle giovanissime generazioni.
L’ESPLOSIONE DI IPERDIAGNOSI- L’esplosione di iperdiagnosi è dovuta anche agli anticipatari (vedi progetto ‘ORA SI!’), ovvero a quei bambini che vanno in prima elementare a cinque anni. Soggetti che hanno maggiore difficoltà scolastiche non per un problema intellettivo ma perché non sono maturi e pronti a rispondere alla richiesta di prestazioni che, di fatto, avviene in un momento inadeguato alla loro età. L’Istituto di Ortofonologia ha ribadito, in occasione della XV convegno nazionale, che “non esiste un problema di dislessia diffusa, ma un grande problema di immaturità diffusa”.
RIDARE CENTRALITA’ ALL’ASPETTO PEDAGOGICO- Per l’IdO il principale problema che i genitori e i docenti devono affrontare consiste nel superamento di quei condizionamenti sociali che mettono la prestazione scolastica come primo obiettivo da raggiungere. Il metodo dell’insegnamento ha subito negli ultimi trent’anni un forte cambiamento non considerando più le capacità raggiunte dai bambini nella comprensione del testo, ma privilegiando un’ottica temporale per l’apprendimento della letto-scrittura, che focalizza la sua attenzione su quanti errori fanno e in quanto tempo. Infatti, se nel 1980 occorrevano due anni, prima e seconda elementare, per imparare a leggere e a scrivere, adesso lo si fa in 3 mesi. Ciò porta a diagnosticare come dislessici i bambini che impiegano più tempo o commettono più errori, estendendo a dismisura l’etichetta di dislessia. 
Lo scenario che ne deriva è l’inarrestabile divario tra prestazioni intellettive da una parte e maturazione affettiva dall’altra, che ci porterà a confondere bambini stressati e ansiosi per bambini dislessici, dirottati verso percorsi alternativi a causa di un criterio tecnico di valutazione estraneo a qualsiasi principio di comprensione del problema.

Per invertire questa tendenza, occorre allora un’operazione culturale che riconduca la dislessia alla sua percentuale reale e ridia alla pedagogia il ruolo che le spetta nell’affrontare e risolvere le difficoltà di apprendimento, privilegiando l’ottica didattica a quella sanitaria.

LE SLIDE DI ALCUNI INTERVENTI
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