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Disturbi, Montecchi: La psicoterapia è come gli scacchi, le prime mosse fanno la partita

L'esperto: Non sezionare cognizione da emozioni, i sintomi sono anche fisiologici

“La psicoterapia è come il gioco degli scacchi, le prime mosse fanno la partita”. Francesco Montecchi, neuropsichiatra infantile e presidente della Onlus ‘La cura del girasole’, parla chiaro agli psicologi e ai medici in formazione, nel corso della seconda giornata precongressuale dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), che chiude anche la due giorni di open day della Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva. È una presentazione particolare: dimostra concretamente l’approccio clinico esperienziale dell’IdO, facendo dialogare Montecchi con Magda Di Renzo, responsabile del Servizio Terapie IdO, e Andrea Pagnacco, neuropsichiatra infantile IdO.

“Gli insuccessi di un percorso terapeutico sono spesso nelle prime mosse- ripete Montecchi- e indicano che qualcosa è sfuggito nella costruzione del progetto. Il primo obiettivo è eliminare ciò che può far fallire l’intervento”.

PARTIRE DA INSUCCESSI PER REALIZZARE IL METODO – “Non fatevi possedere dall’ansia da prestazione, utilizzate le esperienze di insuccesso come fonte di apprendimento”, consiglia Montecchi a chi è ancora in formazione. “Jung dice che gli insuccessi sono esperienze preziose che non solo aprono la via verso una verità migliore, ma ci costringono a mutare i metodi e i punti di vista. Lavorando sull’area della psicoterapia, della psichiatria infantile e dell’analisi ho imparato proprio dagli insuccessi, perché la psicoterapia infantile è un lavoro ad alto rischio di insuccessi, almeno apparentemente”. Nel tempo poi il neuropsichiatra ha modificato il suo metodo: “Chi fa psicoterapia analitica viene da un percorso di analisi e le prime parole che utilizza con i pazienti sono generalmente quelle del proprio analista e dei supervisori. Dunque, si porta dietro una sorta di lingua madre da cui poi dovrà separarsi per potersi aprire a diversi ascolti possibili e a differenti possibilità terapeutiche, nonché per sviluppare diversi segmenti teorici”.

L’obiettivo è l’organizzazione del paziente: “Non adattate mai i pazienti alla vostra unica teoria- suggerisce l’esperto- ma modulate il vostro paziente in riferimento al materiale che vi porta. I pazienti a volte attivano un’area che per noi è un cono d’ombra e se il materiale che ci portano entra in questo cono rischiamo di fallire, in quanto non abbiamo l’ascolto adatto. Ecco allora che il saper adottare diversi segmenti teorici ci aiuta a superare questi coni d’ombra”.

LA DIANGOSI SIA COLLETTIVA – Il clinico deve puntare a una modalità collettiva di fare diagnosi. “Avere punti di riferimento diagnostici è necessario per dialogare con professionisti diversi e per fare ricerche epidemiologiche. A tal fine abbiamo a disposizione il DSM-V e l’ICD10 (International Classification of Diseases), ma il Manuale diagnostico e statistico sui disturbi mentali non è un vangelo su cui appiattirci, dal momento che ha avuto cinque edizioni e quindi ha le sue imperfezioni. Entrambi i manuali utilizzano una classificazione basata su sintomi e comportamenti, da cui poi deriva il percorso terapeutico. Utilizzare però categorie diagnostiche non ci aiuta a capire la storia di ogni sintomo e di ogni patologia- avverte il medico- gli psicodinamici ad esempio necessitano di letture che capiscano la storia di ogni sintomo, che inizia da lontano e immancabilmente proseguirà nell’età adulta. Quando si vede un bambino è importante valutare il suo funzionamento, il suo apparato difensivo e l’assetto affettivo-relazionale all’interno del suo contesto. Disagi e sintomi non hanno mai un momento di esordio, proprio perché le radici sono antiche e vanno addirittura nel transgenerazionale”.

GRAVIDANZA E TRASMISSIONE VERITCALE-ORIZZONTALE MADRE-FIGLIO –  Le emozioni e le esperienze passano attraverso il piano biologico. “La madre trasferisce al bambino le sue esperienze emotive attraverso il canale sensoriale, umorale e neurobiologico. Il feto ha quindi un’emotività in corrispondenza dello stato emotivo della madre. Le teorie sul neurosviluppo ci spiegano che se la mamma è allegra o triste, il feto aumenterà o ridurrà la sua frequenza cardiaca. Inoltre, se la madre ha uno spazio mentale per il bambino durante la gravidanza, si attiveranno nel feto buoni ormoni e nutrienti che determineranno, quando dovrà nascere, un sano sviluppo con l’integrazione corpo-mente-cervello. Se, al contrario, il feto non è pensato o desiderato dalla madre, o ancora se durante la gravidanza la donna è sollecitata da altre situazioni stressanti, si attiverà nel feto un aumento di cortisolo e neurormoni dello stress che altereranno le sue connessioni sinaptiche e comprometteranno l’elasticità neuronale. Si attiveranno quindi nel feto tutti i drammi che poi esiteranno in un trauma. Questo ci costringe a non sezionare l’aspetto cognitivo, relazione ed emotivo nella pratica clinica”. Perché esiste una sorta di trasmissione verticale e orizzontale da madre a figlio. “La prima riprende il concetto winnicottiano di ‘preoccupazione materna primaria’: la madre recepisce le angosce del bambino e dà nome alle sue emozioni. È come se la gravidanza attivasse nella donna un processo di recessione a quando a sua volta lei stessa era un feto nella pancia della propria madre, ed è in questo modo- spiega Montecchi- che lei apprende ad essere madre avendo già sperimentato la propria madre a livello transgenerazionale”. La trasmissione orizzontale, invece, riguarda la comunicazione madre-figlio: “La mamma è mediatrice del figlio, della storia transgenerazionale della famiglia. Un dato importante se pensiamo all’ereditarietà dei drammi vissuti dagli antenati e al fatto che lo stile di vita si ripercuote per cinque generazioni sui discendenti. Nel concreto- esemplifica il neuropsichiatra- se ricostruiamo la storia di un abuso troviamo spesso esperienze di trascuratezza nella catena transgenerazionale, che poi si realizzano in violenze sul bambino”.

GLI EMISFERI CEREBRALI – Durante la gravidanza gli emisferi destri della mamma e del feto sono connessi. “L’emisfero destro è il recettore delle esperienze emotive- chiarisce subito Montecchi- e la connessione tra emisferi nella mamma e nel feto indica uno scambio di esperienze emotive alla base della regolazione affettiva e dello sviluppo emotivo del bambino. L’emisfero sinistro, invece, si attiva dopo i due anni di vita. È infatti difficilmente raggiungibile, attraverso l’analisi verbale, il materiale inconscio prima dei due anni”. Per lavorarci Montecchi usa la Sandplay therapy, che mettendo in gioco la sensorialità della mano, attiva “una delle aree sensoriali fondamentali nel neonato”.

FASI E CRISI EVOLUTIVE, NON TUTTI I SINTOMI SONO PATOLOGIA – Il bambino nel suo percorso di crescita attraversa fasi e crisi evolutive: allattamento, scoperta e conoscenza del mondo, scolarizzazione, pubertà e adolescenza. “Nel corso dello sviluppo affronta vari conflitti tra il legame fusionale e la separazione dalla madre, tra il rimanere nell’infanzia e la spinta a crescere, tra il mantenere i privilegi infantili e il rinunciare e reggere la frustrazione, tra la realizzazione e l’appagamento delle pulsioni alimentari, aggressive e sessuali con l’attenersi al codice morale e all’ideale dell’Io. Sono conflitti che si ritrovano nelle fasi evolutive e possono avere un momento di maggiore tensione- spiega Montecchi- che determina nel bambino una condizione di sofferenza. Poiché l’unica strada che ha, almeno fino ai 7 anni di vita, è esprimere le sue emozioni attraverso il linguaggio del corpo, ecco che nei momenti di maggiore tensione nella crisi evolutiva compaiono sintomi normali e non patologici. Chi lavora sulla clinica dell’età evolutiva deve impegnarsi a distinguere quando un sintomo rientri in un processo normale o quando sia espressione di patologia”.

In tutte le fasi evolutive ci sono momenti critici e “il sintomo fisiologico non va toccato- avvisa il neuropsichiatra- eventualmente va fatta una consulenza ai genitori per aiutarli a capire che il bambino col sintomo sta attivando una capacità di adattamento alla propria evoluzione. Se, all’opposto, il sintomo è patologico, si deve attivare rapidamente un percorso terapeutico che coinvolga anche i genitori”. I sintomi normali sono segnali di disagio transitorio del bambino ed emergono nei momenti di difficoltà come il cambio di casa o la separazione dei genitori. “Sono invece patologici quando segnalano un disagio rigido, non reversibile e anacronistico- precisa il medico- ovvero che non è caratteristico della fase evolutiva che il bambino sta vivendo, indicando così una rottura degli equilibri. Allora si sta sviluppando una psicopatologia primaria o esperienze secondarie di trascuratezza”.

LA PROPOSTA CLINICA – Montecchi parte sempre dall’ascolto dei genitori per sviluppare un profilo evolutivo del bambino: “Una ricostruzione della storia del suo disagio che li aiuti a capire il senso del sintomo. Perché il sintomo ha un valore simbolico, è una missione, un tentativo del bambino di trasformazione”.

Un esempio sono la mancanza dell’oggetto transizionale, oppure del dito o ancora del ciuccio che aiuta il bambino a fare esperienza della completezza corporea.

ECCO COME GESTIRE TRAUMA INTRASFORMABILE – “Esistono vari tipi di traumi, ma alcuni possono essere talmente gravi che diventano dei nuclei intrasformabili. Il trauma è un dato oggettivo- precisa il neuropsichiatra- è un’esperienza concreta non trasformabile, che si incista nel mondo interno della vittima alterando la sua personalità. Cosa possiamo fare del nucleo traumatico intrasformabile?- chiede Montecchi- se accanto a questo gli si mette un nucleo positivo terapeutico (il cosiddetto terapeuta interiore) forse succede qualcosa. Il negativo e il positivo sono due polarità che, entrando in relazione, attivano quella funzione che Jung chiama trascendente e che integra gli opposti. L’intrasformabile entra così nella trasformazione e nella dinamica di cambiamento”.

La sfida per gli analisti, secondo Pagnacco, riguarda allora “un’attenzione al corpo del paziente e alle modificazioni enterocettive. La sfida consiste nel rivedere l’area del corpo come una sorta di lingua che ancora non sappiamo leggere, ma che potrebbe darci informazioni preziose sull’intrasformabilità dei nuclei”.

Come si spiegano le ricadute? “Dal momento che il nucleo intrasformabile è attivo- prosegue Montecchi- bisogna mantenere sempre attivo anche il ‘terapeuta interiore’, altrimenti prende il sopravvento il nucleo distruttivo, soprattutto se la persona è vittima di eventi avversi. L’obiettivo sarà non abbassare mai il livello di forza del terapeuta interiore- ripete il presidente della Onlus ‘La cura del girasole’- e per farlo occorrono cicli di psicoterapia o l’attivazione del terapeuta interno”. Ai colleghi in formazione, in sintesi, Montecchi consiglia: “Quando si vede un nucleo intrasformabile è inutile cercare di trasformarlo, perché così facendo rendiamo l’intrasformabile ancora più potente. Dobbiamo rispettarlo e lavorare sulle risorse che ci sono. Questo è il compito della psicoterapia- sottolinea- perché sono risorse che si devono attivare nella relazione terapeutica”.

Magda Di Renzo conclude con un invito al rispetto del paziente: “L’intrasformabilità e la non integrazione avvengono anche perché non si mette mai in discussione l’incapacità del terapeuta a curare il paziente, ma è il paziente che è considerato incurabile”.

Per seguire la diretta e l’Open day della Scuola di specializzazione IdO-Mite, nonche’ i master sull’età evolutiva clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=f9K5udiYJSA&feature=emb_logo

Per informazioni chiamare martedì, venerdì mattina e giovedì pomeriggio al numero 0645499587 o scrivere alla mail scuolapsicoterapia@fondazionemite.org