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Autismo. Colombia, Pacca (Univalle-IdO): I bimbi migliorano con il modello DERBBI

Ma la terapia va seguita per almeno due anni continuativi. Prosegue la ricerca su 15 bambini

“I bambini con autismo che hanno riportato il più forte miglioramento nei punteggi Ados-2 e del Test sul contagio emotivo (Tce) sono quelli che hanno seguito con continuità da almeno 2 anni la terapia basata sul modello DERBBI (Developmental, Emotional Regulation and Body-Based Intervention), incentrata sul corpo e sulla relazione, attenta al processo di sviluppo del bambino, alle sue potenzialità e interessi. I bambini del campione di studio che, invece, hanno seguito lo stesso tipo di terapia ma senza continuità, non hanno presentato un eguale livello di miglioramento. Infine, i bambini che non hanno seguito alcuna terapia o che hanno seguito il trattamento Aba, quando hanno presentato dei miglioramenti sono stati molto più lievi dei bambini del primo gruppo”. A dirlo è Laura Pacca, docente della facoltà di Psicologia nelle due sedi di Cali e Palmira di Univalle in Colombia, ricercatrice e psicoterapeuta dell’IdO, che dal 2014 ha avviato una collaborazione con Maria Eugenia Villalobos, direttrice del Dipartimento di ‘Sviluppo e Simbolizzazione’ del Gruppo di Ricerca Clinica in Psicologia, Neuropsicologia e Neuropsichiatria di Univalle, per proporre e applicare anche in Colombia il modello terapeutico a mediazione corporea dell’Istituto di Ortofonologia (IdO). “Nonostante si tratti di un piccolo campione formato da 15 bambini- prosegue Pacca- su 11 abbiamo già avuto l’opportunità di effettuare un re-test dopo circa 1 anno dalla prima applicazione del protocollo che stiamo creando”.

L’obiettivo di Pacca e Villalobos è, infatti, proporre un nuovo modo di fare diagnosi dei disturbi dello spettro autistico seguendo il modello Derbbi  dell’IdO, “la cui cornice generale prevede che tanto il momento della diagnosi quanto quello della proposta terapeutica siano attenti alla complessità e a tutte le componenti che incidono sullo sviluppo del bambino. Il comportamento è solo uno degli aspetti che rientrano nella valutazione e il nostro obiettivo è proprio quello di creare un protocollo diagnostico e terapeutico che sappia dare importanza a tutti i fattori dello sviluppo di un bambino per poter guardare alla sua globalità”.

“Nel nostro protocollo- spiega la ricercatrice- sono previsti la valutazione Ados2 e il Tce creato dall’IdO e tradotto in spagnolo. Inoltre, eseguiamo la prova sulla capacità di comprendere le altrui intenzioni (Uoi) e proponiamo questionari sulle funzioni esecutive e sul profilo sensoriale oltre ad altre prove che coinvolgono sia il bambino che i genitori. Sulla stessa linea della proposta IdO- chiarisce Pacca- stiamo cercando di coinvolgere anche la scuola affinché la terapia si svolga all’interno della triade bambino-famiglia-scuola”.

L’idea di esportare il modello IdO in Colombia è nata dopo aver riscontrato, ricorda la studiosa, “che in Sud America, essendo la proposta terapeutica unicamente orientata sul comportamento, il momento della diagnosi presta attenzione unicamente ai comportamenti atipici dell’autismo. Inoltre, la sanità in Colombia è privatizzata e l’unica possibilità terapeutica riconosciuta come prestazione fornita dalle assicurazioni, per i bambini con diagnosi di autismo, è quella cognitivo-comportamentale. Sarebbe invece importante poter garantire la libertà di scelta della proposta terapeutica alle persone e alle famiglie di bambini con queste difficoltà”.

L’impegno, quindi, è di aprire la visione sull’autismo e di proporre al mondo accademico e scientifico un modello che sappia guardare oltre al comportamento “per non perdere di vista il bambino che c’è dietro le atipie e per cogliere le sue potenzialità uniche”. Sulla base di questi presupposti è stata avviata una ricerca che ad oggi coinvolge 15 bambini, da 1 a 5 anni: “Si parte da osservazioni cliniche con i bambini nelle quali applichiamo le prove riprendendoli in video, così da analizzarle insieme a tutta l’equipe di ricerca- illustra la ricercatrice- Segue il lavoro con i genitori, attraverso dei questionari. Come primo risultato- prosegue- abbiamo prodotto delle osservazioni che riepilogano le caratteristiche dei bambini, abbiamo incontrato le famiglie, gli insegnanti e i responsabili dell’inclusione educativa”, fa sapere Pacca. La sfida successiva è “presentare delle proposte terapeutiche e di inclusione educativa che tengano conto delle specificità di ogni bambino e che siano per questo più efficaci in quanto non uguali per tutti”.

Le famiglie “hanno bisogno di comprendere chi sia il loro figlio. I genitori sono grati di capire il significato delle prove e dei risultati che i bambini ottengono e di approfondire così anche il rapporto con il terapeuta. Le prove standardizzate e i dati quantitativi sono utili- ricorda la psicoterapeuta- ma non possono essere l’unico tipo di indicatore che si fornisce ai genitori. Noi invece forniamo informazioni, spiegazioni e consigli su come far fiorire il potenziale che individuiamo nei bambini”. Sul fronte scuola, “pure gli insegnanti si trovano spesso a doversi occupare di bambini con autismo senza saperne nulla, cosa che complica la costruzione della relazione”. La falsa credenza da sfatare è che i bambini con autismo non siano capaci di entrare in relazione, non è così: “Quando il bambino capisce che c’è un reale interesse dell’altro a comprenderlo e non solo l’intenzione di addestrarlo a fare o non fare delle cose, questo crea un’atmosfera e una dinamica di lavoro molto diversa sia per il piccolo che per l’insegnante e l’intero gruppo classe”. Sul versante scientifico, “il mondo accademico- precisa la ricercatrice IdO- sta accogliendo con entusiasmo questo approccio terapeutico, perché fornisce molti più dati sulle caratteristiche e le specificità di ogni bambino”.

Pacca porta avanti queste convinzioni basandosi su esperienze concrete: “Abbiamo ricevuto riscontri positivi negli ultimi due congressi clinici internazionali ai quali, come equipe di ricerca, abbiamo partecipato in Colombia e in Spagna. Abbiamo presentato i risultati dei dati raccolti e delle riflessioni cliniche realizzati nell’ambito della nostra ricerca”. Nel suo lavoro, in particolare, specifica, “ho parlato della presenza del contagio emotivo paragonandolo a una piccola finestra socchiusa che può permettere a un bambino con autismo di progredire nella costruzione e nello sviluppo delle sue competenze emozionali”.

Tuttavia “non è automatico che questa finestra si apra del tutto, perché accada- ricorda- è importante che la terapia offerta sia attenta alla relazione e alle capacità emotive del bambino. Se la terapia non è attenta a questi elementi, quella finestra- conclude- può chiudersi completamente”.