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Il neuropsichiatra: In plusdotati condotte che richiamano isolamento

Trapolino: Non demonizzare i videogiochi, gli avatar sono funzionali alla socialità

“Nella mia esperienza clinica sta capitando sempre più frequentemente che nei soggetti plusdotati non si concretizzino veri e propri ritiri, ma condotte che richiamano a quel movimento di isolamento”. A dirlo è Davide Trapolino, neuropsichiatra infantile dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), membro del gruppo di ricerca in Psicopatologia all’interno del progetto ‘Ritirati ma non troppo’ dell’IdO, ripartito venerdì 11 settembre con i gruppi di sostegno alle famiglie.

Il clinico, quindi, attenziona “l’intelligenza ipertrofica come fattore di rischio per difficoltà di adattamento che a lungo andare possono sostenere percorsi di ansie sociali e determinare difficoltà d’inserimento nel contesto, sensazione di esclusione fino eventualmente al ritiro. In una larga percentuale di soggetti con queste capacità intellettive vi è, infatti, una tendenza all’intellettualizzazione, alla razionalizzazione, una certa rigidità di funzionamento unitamente a una gamma di interessi non necessariamente ristretti, ma sicuramente peculiari e atipici rispetto all’età. Se mettiamo insieme queste cose- dice Trapolino- capiamo quante difficoltà di adattamento questi ragazzi possono trovare, quanta difficoltà possano avere nonostante il desiderio di entrare in relazione con l’altro”.

Anche se non sono riportate correlazioni dirette tra la plusdotazione e il ritiro sociale, “l’esperienza clinica mostra che un alto potenziale intellettivo determina una disarmonia, una dissincronia di sviluppo nei soggetti, laddove le competenze intellettive sono ipertrofiche spesso a discapito delle competenze di regolazione affettiva”.

Per chi si trova in una condizione di ritiro sociale, come gli hikikomori, “la tecnologia può assolvere il ruolo di balsamo per l’anima- sottolinea il neuropsichiatra- Nel gioco, infatti, si crea un avatar funzionale, efficiente, adeguato che spesso è tutto il contrario di quello che la persona è in società. Il ragazzo ritirato gioca la sua partita virtuale su quell’immagine, non sulla sua immagine reale. La tecnologia non va demonizzata- sottolinea l’esperto- perché non è la tecnologia che fa isolare i ragazzi, è nell’isolamento che i ragazzi scoprono come la tecnologia può diventare uno strumento, un surrogato della socialità. Spesso i giovani condividono esperienze online che sono esperienze virtuali, ma ormai è in Rete che trovano quelle parti del sé che prima trovavano sotto casa, quando giocavano in mezzo alla strada”.

L’associazione hikikomori-tecnologia non è però scontata. “Non è obbligatorio che l’hikikomori per essere tale usi necessariamente i videogiochi”, spiega il neuropsichiatra. Ma è vero però che “i videogiochi utilizzati sono molto sofisticati, stimolano l’intelligenza e consentono di creare avatar che illusoriamente compensano le fragilità che il loro corpo in carne e ossa necessariamente dimostra”. Secondo Trapolino “l’hikikomori non ha una dipendenza dalla Rete, ma la utilizza spesso in modo intelligente per tenersi informato e in contatto”.

Come intervenire? “La psicoterapia deve essere flessibile e adattarsi alle difficoltà legate al fatto che un soggetto è ritirato e quindi è già enormemente difeso, arroccato- suggerisce Trapolino- Ad oggi si sa che bisogna lavorare molto sulla mentalizzazione, sulla meta-cognizione in termini di abilita’ sociali, sulla regolazione delle emozioni perché questi sembrano essere i processi più carenti. La dimensione interpersonale che sostanzia le vite di noi esseri umani alimenta la nostra Intelligenza sociale e quindi anche la capacità di lettura della mente altrui e nostra. Se io in qualche modo sono deprivato, è come se fossi deanimato, è come se fossi impoverito, necessariamente- spiega il medico- quindi non soltanto mi faccio incapace di leggere la mente dell’altro, o forse è proprio a causa di questa difficoltà che mi sono gradualmente ritirato, ma poi faccio fatica a interpretare le mie di tensioni interne, di stati mentali. Quindi, il lavoro deve sicuramente centrarsi su questo e poi infine bisogna aiutare le famiglie, bisogna riproporre un nuovo tipo di narrazione- conclude- bisogna permettere in qualche modo una seconda nascita di questi ragazzi dentro le loro stanze. Non lo si può fare se non si coinvolgono direttamente le famiglie, è impossibile”.